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lunedì 16 ottobre 2017

Piccole cose di scuola: Il giorno dei morti di A. Camilleri

Piccole cose di scuola: Il giorno dei morti di A. Camilleri
Si avvicina la Commemorazione dei defunti: un giorno molto sentito in Sicilia. Questo racconto di Camilleri racconta alla perfezione le antiche tradizioni.
I miei scolari di quinta hanno molto apprezzato.

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Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari.
Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.

Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.

I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.

Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.


Ecco ancora altre attività e tradizioni connesse alla ricorrenza dei defunti.
Ho trovato una leggenda giapponese sull'origine del crisantemo, il fiore che più di altri mettiamo sulle tombe dei nostri cari!

Una leggenda dal Giappone: “La leggenda del crisantemo”

In una casetta del bosco vivevano una mamma e una bambina. Intorno alla casetta sbocciavano bellissimi fiori; quando giunse la brutta stagione, tutti i fiori appassirono. Solo uno era rimasto alla bimba, perché ella lo aveva conservato in casa. Un giorno la mamma della bimba si ammalò gravemente; allora colse il fiore e l’offrì alla Madonna, perché facesse guarire la sua mamma.

Mentre pregava sentì una voce: "La tua mamma vivrà tanti anni quanti sono i petali del fiore che mi hai donato!" La bimba contò i petali del fiore e vide che erano pochi; allora per amore della mamma, ridusse i pochi petali in tante striscioline. Così i petali divennero molti e la mamma visse per tanti anni.

Nacque così il crisantemo, il fiore dai mille petali.


Altro argomento conness è:
come nacque "La frutta martorana", che deve il suo nome alla Chiesa della Martorana, fondata insieme al convento di Santa Caterina dalla nobildonna Eloisa Martorana nel 1194, da cui prese il nome, dove le suore preparavano e vendevano questi dolcetti fino alla metà del 1900.

Secondo una nota tradizione, la frutta di Martorana è nata perché le monache del monastero della Martorana, dovendo ricevere la visita del vescovo ed essendo il giardino spoglio di frutti, vista la stagione autunnale, per sostituire i frutti ne crearono di nuovi con farina di mandorle e zucchero, per abbellire il monastero. Ecco da qui la tradizione di preparare questi dolcetti per i morti.


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