I miei scolari di quinta hanno molto apprezzato.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.
Una leggenda dal Giappone: “La leggenda del crisantemo”
In una casetta del bosco vivevano una mamma e una bambina. Intorno alla casetta sbocciavano bellissimi fiori; quando giunse la brutta stagione, tutti i fiori appassirono. Solo uno era rimasto alla bimba, perché ella lo aveva conservato in casa. Un giorno la mamma della bimba si ammalò gravemente; allora colse il fiore e l’offrì alla Madonna, perché facesse guarire la sua mamma.
Mentre pregava sentì una voce: "La tua mamma vivrà tanti anni quanti sono i petali del fiore che mi hai donato!" La bimba contò i petali del fiore e vide che erano pochi; allora per amore della mamma, ridusse i pochi petali in tante striscioline. Così i petali divennero molti e la mamma visse per tanti anni.
Nacque così il crisantemo, il fiore dai mille petali.
Secondo una nota tradizione, la frutta di Martorana è nata perché le monache del monastero della Martorana, dovendo ricevere la visita del vescovo ed essendo il giardino spoglio di frutti, vista la stagione autunnale, per sostituire i frutti ne crearono di nuovi con farina di mandorle e zucchero, per abbellire il monastero. Ecco da qui la tradizione di preparare questi dolcetti per i morti.
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